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ISTVAN MADARASSY


Istvàn Madarassy è nato il 16 luglio 1948 a Budapest. Appartenente ad una famiglia di artisti, ha frequentato l’Istituto di arti applicate e figurative e la Scuola superiore di Arti applicate. A soli 20 anni è stato restauratore presso il Museo Nazionale Ungherese. Dal 1973 è membro degli “Artisti ungheresi”, dal 1987 della Società artistica DunapArt e dal 1991 della Europaische Akademie der Wissenschaften und Künste (ASAE, Salisburgo). Nel 1994 la sua opera “La porta dell’Inferno”, ha ricevuto la medaglia d’oro alla Mostra Biennale Internazionale di Dante a Ravenna. Nel 2000 il Presidente della Repubblica Ferenc Màdl ha fatto omaggio a Papa San Giovanni Paolo II, in Vaticano, delle sue statue di S. Stefano e Santa Gisella. Nel 2004 ha ricevuto la medaglia al merito del governo ungherese. La sua passione per l’arte, la musica, la letteratura italiane l’hanno portato a recarsi e a esporre diverse volte in Italia (Venezia, Milano, Firenze, Roma), a Parma (mostra alla Galleria Sant’Andrea di Parma, presentato dall’On. Giuseppe Amadei, nel 2007 e nel 2019 alla Galleria Parma per le Arti) e provincia (Rocca Sanvitale di Fontanellato nel 2008 e nel 2013 al Museo Verdi di Busseto). Il ciclo della Divina Commedia in 99 tavole di rame lavorate con la tecnica della pittoscultura, è stato esposto a più riprese a Firenze nel Museo Casa di Dante (2011, 2013, 2016) e nel 2019 all’Accademia Ungherese a Roma. Sempre nello stesso anno gli è stato conferito dal Presidente d’Ungheria il prestigioso premio Kossuth ed è stata inaugurata a Zimony in Serbia la statua dell’eroe serbo Janos Hunyadi alla presenza del Presidente ungherese János Áder e del Presidente serbo Aleksandar Vucic. Madarassy aveva in precedenza realizzato Santo Stefano, San Ladislao e la figura di tre metri dell'Arcangelo Michele nella piazza principale di Veszprém.

        

Ha impiegato circa 6 anni Istvàn Madarassy per compiere la sua “Divina Commedia”, leggendo e rielaborando nel crogiuolo della sua mente e della sua anima le parole “alate” di Dante, scolpendo col calore della fiamma e plasmando il rame, perché rimandasse i patimenti e il sofferto cammino dell’Inferno, il riverbero rosso e il desiderio di salvezza del Purgatorio, lo splendore dell’oro e la gloria esultante, corale dei cieli del Paradiso.
Osservando questo percorso creativo, tre sono le chiavi interpretative, tre gli elementi simbolici che caratterizzano tutta la sua Divina Commedia: la luce, il suono, le persone.
I canti infernali sono rappresentati con un fondo scuro, spesso opaco, sul quale risaltano varie sfumature di colore e ombre arse di aloni ossidati. La materia qui prevale sullo spirito, incatena le anime dannate ad una cupa eternità di solitudine. Regna ovunque il silenzio di una speranza soffocata, talvolta interrotto da un grido vuoto, fatto di braccia in alto protese, come nella tavola con la nave di Ulisse nel suo “folle volo”. S’avverte un’inquieta disarmonia, le figure umane, poche e disgiunte, sono spesso in equilibrio precario, le forme sono incomplete, e talvolta parlano solo mani che raccontano d’affanno e paura senza mai pace. Nel Purgatorio il fondo è rosso dell’appassionata brama di Dio e del fervido pentimento, le figure sono rappresentate più numerose e spesso in dialogo tra loro. Il grido bestiale o il silenzio di disperazione sono mutati in comunione e conversazione. Le teste sono spesso rivolte in alto e le composizioni, dove prevalgono questi azzurri cangianti, trasmettono un senso di moto ordinato. Dante e Beatrice sono in più immagini insieme e il legame d’amore è forza che fa ascendere, sospingendo in alto. Finchè, ecco il Paradiso, dal fondo oro che rimanda la luce, dove le anime sembrano danzare e cantare rivolte “in excelsis Deo”. Le tavole s’affollano di cori angelici, d’accordi armoniosi. Nello splendore, s’accendono tutti i colori. La materia del rame è trasfigurata in un tripudio iridato, sfolgorante fino al culmine della visione trinitaria fatta di rosso, blu e oro che si vanno mutando uno nell’altro per significare l’Uno e trino di Padre, Figlio e Spirito Santo. Dopo il cammino della Fede, faticoso nelle tenebre infernali, dopo il fremito della speranza trattenuto ancora dal fardello dei peccati da “purgare”, si giunge al massimo di luce, alla musica dei cori angelici, al perfetto accordo che è Carità, è Dio.
Dante doveva restituire a parole un’apparizione sublime e ineffabile, Madarassy tradurre visivamente, con la materia plasmata e scaldata, le visioni sempre più inesprimibili, spirituali del poeta. Quello che conta e che resta non sono però le immagini concrete, ma l’emozione che restituiscono, il sussurro dell’invisibile che passa da anima a anima.
E con questa emozione entra in noi la Verità. Che è poi tutta in quell’ultima frase del Paradiso dantesco: “l’Amor che move il Sole e l’altre stelle.”

Manuela Bartolotti